La storia di Ihor Peteyuk non è una storia.
Perché la morte non può essere definita una “storia”.
La morte è una “fine”; è l’epilogo, il capolinea estremo nel quale convergono tutte le vite, tutte le storie umane.
Ihor Peteyuk è un ucraino di 46 anni, clochard, incensurato. Questo è quanto sappiamo fin qui di lui, non conosciamo la sua storia, ma solo la sua “fine”, quella raccontata e suggerita dal suo cadavere ritrovato tra una montagna di rifiuti nell’impianto Stir di Caivano, in provincia di Napoli.
Secondo li inquirenti che indagano per ricostruirne la feroce morte, una delle ipotesi più accreditate e quella che suppone che Ihor avrebbe trovato rifugio in un cassonetto dove si sarebbe addormentato, in preda all’alcool, passando, in un letale e repentino attimo, dal sonno alla morte e pertanto ridotto in poltiglia dal meccanismo di stritolatura dei rifiuti di un autocompattatore.
Le lesioni riportate sul corpo dell’uomo avvalorano questa ricostruzione: dalla spina dorsale fratturata di netto, ad una grossa lesione al capo, così violenta da sollevare in parte il cuoio capelluto, al naso rotto. Lesioni compatibili con quelle causate dallo schiacciamento nel meccanismo interno all’autocompattatore.
Tuttavia, al vaglio degli inquirenti c’è anche un’altra pista che configura uno scenario ben più atroce: il clochard ucraino potrebbe essere stato investito da un pirata della strada e poi gettato nel cassonetto della spazzatura, dove a dargli il “colpo di grazia” sarebbe poi sopraggiunta la complicità dell’autocompattatore.
Spetta quindi all’esame autoptico chiarire le cause della morte e far luce sulla “fine” della storia e della vita di Ihor.