Francesco Furchì, 52 anni, è stato condannato definitivamente all’ergastolo per omicidio volontario premeditato aggravato da motivi futili e abbietti.
Quel 21 marzo 2012, Alberto Musy, capogruppo dell’Udc in Sala Rossa, padre di quattro figlie, avvocato civilista e insegnante di Diritto privato comparato, si trovò faccia a faccia con suo assassino nell’androne della propria casa, in via Barbaroux, nel centro storico di Torino: il misterioso “uomo con il casco” da motociclista, claudicante, che aveva citofonato con un finto pacco postale e che poi aveva sparato cinque colpi di pistola, si è rivelato essere proprio Furchì.
Già da due anni l’uomo si trovava nel carcere delle Vallette, dove ora è stato rinchiuso fino alla fine dei suoi giorni, come stabilito dalla Corte d’assise di Torino.
Continuava a ripetere: “Non è giusto!”, mentre i suoi avvocati Giancarlo Pittelli e Gaetano Pecorella cercavano di far emergere le lacune della sentenza, come la possibile esistenza di un complice o l’assenza dell’arma del delitto. Nonostante questa strenua difesa, la vedova Angelica Corporandi d’Auvare è fermamente convinta che la giustizia funzioni: “Finalmente posso tornare a casa dalle mie quattro bambine e spiegare cosa è successo al loro papà”.
Il movente di questo gesto scellerato che ha portato Musy a diciannove mesi di agonia in clinica e poi alla morte sarebbe stato questo: per almeno tre volte Furchì gli aveva chiesto di scalare la società Arenaways, entrare in consiglio comunale, raccomandare il figlio di un ex ministro, e l’altro aveva sempre rifiutato.
Ancora aperto per Furchì, nel frattempo dichiarato decaduto dalla potestà genitoriale, il fascicolo per maltrattamenti a moglie e figlie.
Stabiliti i risarcimenti al Comune di Torino, all’università di Novara, ai familiari di Musy. La vedova ha dichiarato che devolverà tutto il denaro, intestando gli assegni al fondo benefico delle famiglie in difficoltà, creato proprio dai familiari di Alberto.