Sabato 27 gennaio 1945: migliaia di superstiti, uomini ridotti in scheletri, vite spogliate di abiti e dignità, vengono sottratti da un autentico e feroce inferno terrestre, dall’arrivo delle truppe sovietiche. La città di Oświęcim (in tedesco Auschwitz), sita a 75 km da Cracovia, era stata per secoli un luogo di pacifica convivenza tra gli abitanti di origine polacca e quelli di origine tedesca. Dal 1400 la popolazione era in maggioranza di religione ebraica, ma ciò non le aveva impedito di figurare tra i principali centri della cultura protestante in Polonia.
Lo scoppio del secondo conflitto mondiale mutò completamente lo scenario. Dopo l’invasione della Polonia, i Nazisti decisero di aprire in questa zona un campo di concentramento destinato a dissidenti polacchi, comunisti, intellettuali, criminali tedeschi e zingari. A questo scopo furono utilizzate delle vecchie caserme dell’esercito polacco, nella periferia della città.
L’area, recintata con il filo spinato elettrificato, venne chiusa da un cancello di ferro tristemente famoso per la scritta ingannevole che lo sormontava: «Arbeit macht frei» ovvero “il lavoro rende liberi”. Il fabbro che l’aveva realizzata pare che avesse appositamente saldato la “B” al contrario, in segno di protesta verso la reale funzione del luogo. Nei due anni successivi, il complesso si ampliò ulteriormente con il campo di Birkenau, riservato inizialmente ai prigionieri russi e il campo di lavoro di Monowitz, quest’ultimo destinato a sfruttare il lavoro dei deportati per la costruzione di una fabbrica legata alla produzione di gomma sintetica, di fatto mai avviata.
Con l’adozione della famigerata soluzione finale, proposta nella conferenza di Wannsee del gennaio 1942, l’area divenne lo strumento di un disegno criminoso: lo sterminio del popolo ebraico. Da quel momento Birkenau si trasformò in una “cittadella di morte”, attraverso la costruzione di camere a gas e forni crematori. La scelta ricadde qui per la vicinanza della linea ferroviaria che facilitava le deportazioni.
Al loro arrivo, i prigionieri venivano spogliati di tutto e rivestiti con una casacca standard che si distingueva per un contrassegno colorato all’altezza del torace – identificativo della categoria del detenuto; agli ebrei era associata una stella gialla a sei punte – e per il numero di matricola, tatuato anche sul braccio sinistro.
Tutti i deportati ignoravano la loro destinazione e la sorte che li attendeva. Stremati dalla fame e dalle indicibili torture patite, molti preferirono andare incontro alla morte volontaria lanciandosi contro il filo spinato elettrificato, piuttosto che aspettare di essere avvelenati dal gas e bruciati nei forni crematori. Qui, in tre anni, furono messi a morte circa 12mila ebrei al giorno.
Uno sterminio di massa che s’interruppe solo di fronte all’avanzata dell’Armata rossa in Polonia, di fronte alla quale il capo delle SS Himmler diede l’ordine di evacuare i prigionieri e distruggere qualsiasi traccia dei crimini commessi, dai forni crematori agli indumenti delle vittime ammassati nei magazzini. L’operazione non poté essere portata a termine e molte testimonianze di quell’inferno rimasero intatte.
Quando il pomeriggio del 27 gennaio le truppe sovietiche della Prima Armata del Fronte Ucraino, al comando dal maresciallo Konev, abbatterono i cancelli di Auschwitz si trovarono di fronte a 7mila fantasmi: tanti erano i sopravvissuti ridotti a pelle e ossa che li accolsero.
L’ispezione della zona fece emergere le prime tracce dell’orrore consumato all’insaputa del mondo intero: tra i vari resti, furono rinvenute 8 tonnellate di capelli umani. Nelle settimane successive si poté così svelare il più grande inganno della storia, partendo dai numeri.
Si parlò inizialmente di 4 milioni di ebrei uccisi ad Auschwitz, cifra rivista in seguito e fissata a 1.500.000. Più dei numeri dicevano le numerose testimonianze dei sopravvissuti, tra cui lo scrittore torinese Primo Levi (autore del romanzo Se questo è un uomo), e quelle lasciate dalle vittime, come il celebre diario di Anna Frank. Istituzioni governative e culturali si attivarono negli anni perché le generazioni future non dimenticassero mai più questa drammatica pagina di storia.
L’UNESCO dichiarò Auschwitz Patrimonio dell’Umanità nel 1979.
Nel 1996 la Germania riconobbe il 27 gennaio come Giorno della memoria delle vittime del Nazismo, proclamata anche dall’Italia (nel 2000) e dall’ONU (risoluzione 60/7 del 1° novembre 2005).
La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”. Così recita il testo dell’articolo 1 della legge italiana che spiega cosa si ricorda nella giornata della Memoria. Una giornata che invita alla riflessione e che ricorda quali riprovevoli e lugubri scenari è in grado di imprimere nella vita dei suoi stessi simili l’essere umano.
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