Moctar viene da Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso. Ha 32 anni. E’ musulmano. E la cosa che gli manca di più del suo paese è la figlia.
Non la vede da quattro anni, da quando è partito per l’ Europa. Prima Amsterdam, poi Napoli. Quando gli ho chiesto perché fosse andato via dall’ Olanda, visto che qui i giovani fanno esattamente il tragitto opposto, mi ha risposto che “in Olanda è difficile stare senza il permesso di soggiorno. Devi sempre stare attento alla polizia. In Italia è più facile.”
Moctar non parla bene l’ Italiano, ma è risultato molto facile capirci; toni, gesti, occhi e taciti consensi, si sono rivelati oratori. Forse perché, in fondo, eravamo due coetanei con poche certezze e molte domande.
“Lavoro per mia moglie e mia figlia. Mando loro circa 200 euro al mese, così possono vivere bene in Burkina Faso” mi spiega, mentre le macchine si alternano a fare benzina. Lui è uno di quelli.
Uno di quelli che lavorano ai distributori di benzina, che ogni giorno incontriamo, salutiamo, o, a cui, spesso, non facciamo caso perché stiamo al cellulare, o nervosi per qualche motivo. Ed è emblematico questo poiché, dopo un pò, Moctar mi ha detto:
“Per me è difficile vivere qui. Forse lo è per tutti i musulmani, perché voi volete sempre cambiare. Cambiare lavoro; cambiare macchina; cambiare moglie. Io invece voglio vivere tranquillo”. Parole semplice, poco articolate, ma che racchiudono i cardini di un conflitto culturale e sociale, in fondo irragionevole: guardare la vita da due punti di vista, lontani tra loro, e pretendere di trovare le stesse spigolosità. Le stesse ombre. Lo stesso senso. E questa erronea pretesa arriva da entrambe le parti.
Moctar mi spiega che l’ 80% dei burkinabè è musulmana, la restante parte è cattolica. E quando gli chiedo qual’è la sua opinione in merito agli ultimi fatti in Francia, mi risponde che non è possibile che quei terroristi erano musulmani perche “un musulmano vero non può uccidere. Un musulmano vero prega. Io vado tutti i venerdì in moschea; e quando non ci posso andare per lavoro, prego a casa.”
Moctar appare molto rispettoso dei dogma da seguire: mi racconta che non beve alcolici, non fuma, non fa uso di droghe, nonostante gli piaccia uscire con gli amici e andare nei locali per ballare o ascoltare musica. Quando ho ironizzato, poi, sul numero di mogli che può avere un musulmano, mi ha risposto altrettanto goliardicamente: “io ho una moglie. Non posso pensare a due mogli. Sono i napoletani ad avere due mogli: una a casa e una fuori casa. Non i musulmani!”
Mentre parlavamo, tra una macchina e l’ altra, e saluti affettuosi di clienti fissi, passa un furgoncino, e Moctar esclama: “aspetta, vengo subito, quello è mio amico” tornando con un grosso sacchetto di zeppole e crocchè. Si trattava di un venditore ambulante di fritturine, il quale ogni sera gli porta la cena.
Gli ho chiesto com’è, effettivamente vivere a Napoli per un extra-comunitario, vivere tra la gente; e se avesse mai avuto forti esperienze negative a riguardo. “Come in ogni parte del mondo, ci sono persone giuste e persone non giuste. Non esiste un paese di giusti. Molte persone sono brave, altre no” ha esordito, raccontandomi, in seguito, che una sera, mentre camminava nei pressi di piazza Cavour, un ragazzino gli si scagliò addosso, picchiandolo. Gli ho chiesto se lo conoscesse o se ci fosse stato un motivo scatenante, ma mi ha risposto che non l’ aveva mai visto prima e che non vi erano motivi, poiché stava solo passeggiando e pensando alle sue cose. Tuttavia, Moctar non reagì. Si limitò a difendersi perché il ragazzino in questione “aveva 16 anni forse. Era un bambino”.
Moctar vive bene a Napoli, ma il suo futuro è in Burkina Faso. Sogna di mettere dei soldi da parte e ritornare lì, per vivere con la sua famiglia e vedere la figlia crescere.
Mi ha raccontato che all’ inizio qui è stata dura, senza permesso di soggiorno e senza una casa propria.
Appena arrivato, infatti, dimorava nell’ autoparco di via Brin, abbandonato dalle istituzioni perché giudicato “inadeguato ad ospitare i lavori” . E, dalle stesse istituzioni concesso per l’ emergenza- stranieri. L’ autoparco ospitava circa 200 persone e l’ emergenza sarebbe dovuta durare 10 giorni, ma solo dopo un anno sono state sgomberate. Si saranno ricordati che la struttura non risultava idonea.
Ora Moctar vive con un amico africano nei pressi della stazione centrale. “Paghiamo 400 euro al mese, ma sono contento perché stiamo bene lì.”
Come ha detto Moctar al principio, in Italia è più facile “vivere” per chi non permesso di soggiorno, poiché i controlli, si sa, non raggiungono il massimo dell’ efficienza.
Tuttavia, forse, questo non è sempre un male; la tolleranza e l’ accoglienza sono valori che spesso sfuggono alle regole, perché riguardano l’ anima più che la legge scritta,e per i quali bisogna pagare un prezzo.
Indubbiamente, l’ Italia vacilla proprio a causa dell’ inadeguatezza nei controlli e a causa della mancata applicazione della legge, tuttavia, non è una questione recintata agli ingressi degli immigrati: perché come per l’ immigrato è più facile “vivere” qui, lo è anche per chi decide di evadere le tasse sistematicamente, per chi corrompe e si lascia corrompere, a discapito della collettività, e per chi gode dei privilegi istituzionali che gli precludono, magari, il rischio di finire in galera.