È difficile considerare un carnefice come vittima, così come è assai difficile comprendere i motivi più profondi che spingono una persona, dotata di una conoscenza che immaginiamo, a grandi linee, salda sulla differenza tra il bene e il male , ad arruolarsi nel gruppo jihadista più pericoloso di questi anni. Che le ragioni siano economiche o sociali, che sia per un eccesso di identità oppure perché, di questa, se ne sente il deficit, l’adesione all’ Isis di molti individui è tutta ideologica, cioè non “naturale”, è una posa, un abito e non pelle. È certamente pazzia, è forse una scelta nelle non scelte, nel tentativo di proiettarsi in dinamiche di appartenenza. C’è l’orgoglio, l’odio, la paura e non ultima la fame di potere. C’è tutto questo e molto di più nella scelta di interiorizzare il terrorismo come unica via possibile. D’ altronde, parafrasando una vecchia massima, il terrorista degli uni è il martire irredentista degli altri, benché l’assassino non mai è nel giusto.
Il discorso,però, cambia completamente registro se chi si incorpora in strategie mortali degeneri non è più un uomo dotato delle basi del libero arbitrio, ma un bambino ancora incapace di discernere il male e il bene dalla verità, la fede dalla follia fanatica.
Usaid Barbo ha 14 anni e pochi giorni fa si è spinto in un vicolo cieco, scegliendo l’ incontrovertibile valore che ha una richiesta d’aiuto, per quanto originaria e inaspettata: si è consegnato alle autorità irachene, mentre, con indosso una cintura esplosiva, era pronto a morire in una moschea sciita di Baghdad. Ha aperto la giacca e ha sussurrato ad una guardia “ non voglio farmi saltare in aria”. Non l’ha fatto. Un ragazzino di 14 anni addestrato alla morte ha evitatato una strage.
Usaid era stato reclutato dall’Isis in una moschea di Manjbi, vicino ad Aleppo, una zona conquistata dai jihadisti dopo furiosi combattimenti con i ribelli. L’hanno convinto ad unirsi al califfato perché «credeva nell’islam». Gli hanno inculcato l’idea che gli sciiti fossero degli infedeli e che dovevano essere uccisi.
“Bisogna combattere gli sciiti, violenteranno tua madre” gli hanno detto. E lui ha visto verità e giustizia. Ha detto si. Solo con il tempo e con un conflitto interiore che non possiamo immaginare, Usaid si è accorto che c’era qualcosa di sbagliato, che l’islam non insegna ad uccidere gli innocenti, non è così impietoso. E allora ha scelto: sarebbe stato un kamikaze, ma non sarebbe morto. Avrebbe defezionato l’Isis.
La portata di questa presa di posizione è enorme e la domanda che dobbiamo porci adesso è: cosa spinge un ragazzino ad entrare in un’organizzazione così particolare da definire se stessa come “stato” e non come “gruppo”? Un’ organizzazione che usa metodi così violenti che anche al Qaeda di recente se ne è distanziata?
Ad oggi non abbiamo risposte certe, non abbiamo verità infallibili, ma intuizioni da non sottovalutare: la posizione di un possibile carnefice ribaltata a scomoda vittima potrebbe fare un po’ di luce su tanti dubbi.
Usaid è la futura risposta alle domande sul terrorismo. È una possibile chiave di volta su una lotta a questo combattuta dal basso, che preme sulle coscienze, ristabilendo un netto confine tra la religione ed il fanatismo.
Ricordiamoci di lui.