“Jovine è una band nata, animata e motivata dalla voglia di fare musica che non si è mai posta una direzione verso la quale incanalare obiettivi, versi ed intenzioni. Nel corso di questi 10 anni, però, abbiamo creato tante cose. Giorno, dopo giorno, una canzone dopo l’altra, così abbiamo conquistato tante soddisfazioni. Tuttavia, non ci siamo mai crogiolati nella tutt’altro che costruttiva culla dell’autocelebrazione: i successi conquistati, all’alba del giorno immediatamente successivo, vengono sempre “accantonati”, o meglio, relegati nell’album dei ricordi, quindi continuiamo incessantemente a fare musica per raccontare sempre storie nuove. Del resto, ogni giorno è un giorno nuovo, destinato a svanire, solo la musica è destinata a durare in eterno. Ed è per questo che faccio il musicista: per permettere alle emozioni e alle storie che prendono forma attraverso la mia musica, di vivere per sempre.”
Nasce così la notte più magica di Jovine, incastonata nella raccolta cornice del teatro Bolivar, per sfogliare quel fantomatico album dei ricordi, intelaiato di note e parole che il pubblico presente in platea acclama da circa 10 anni.
Tra palco e platea, non s’interpone l’usuale sipario che, accompagnato da un suggestivo gioco di luci, con maestosa leggiadria, si rannicchia per cedere il posto agli artisti che irrompono in scena.
Non c’è nulla da “nascondere”: questo è il preambolo che, prima di ogni altra impercettibile sfumatura emotiva, lascia dedurre che sarà una serata animata dalla magia insita nelle “piccole cose”.
“La tromba” della band, Michele Acanfora, consegna un’iconografia piacevolmente inedita della sua anima artistica, sedendosi al pianoforte per accompagnare “la voce”, Valerio, in una versione a dir poco toccante di “Vedrò, vedrai”: quel brano nato, in un giorno qualunque di 10 anni fa, a Procida.
Alla musica di Jovine va riconosciuto l’ammirevole e coraggioso pregio di saper imprimere brio e leggerezza a tematiche altamente serie, tutt’altro che distanti e superate.
Dieci anni fa, così come oggi, la storia vomita nomi di sconosciuti divenuti tristemente noti, in virtù del cruento destino che gli ha falciato la vita.
“Morti di Stato”: così vengono comunemente definiti, quelli come Carlo Giuliani, la cui controversa vicenda ispirò il testo di “Ci sono giorni”; quelli che a detta di Valerio: “Quel giorno dovevano prendersi “la tarantella” di quel giorno e che non doveva diventare “la tarantella” della vita.”
Attimi di nuda e struggente riflessione che, in maniera tutt’altro che banale, ricordano che “fare musica” significa soprattutto questo: condurre i cuori, attraverso “le porte dei timpani” verso le emozioni più sane da coltivare.
Rotti gli indugi, alla sua maniera, animato dalla viva passione che puntualmente infervora l’anima di un artista al cospetto di una platea, Jovine entra a gamba tesa nel vivo della serata e quindi della sua storia, umana e musicale.
“Like a Virgin”, “Da Sud a Sud”, “Good morning”, “O’ Reggae e Maradona”, “Contrabbandieri d’ammore”: autentici urli di battaglia, capaci di disseminare gioia, coinvolgimento, entusiasmo, voglia di vivere, tutte le volte, come se fosse la prima volta.
E, in effetti, per una persona presente sul palco, quella è “la prima volta”: dopo 10 anni, infatti, Francesco Spadafora, ha ceduto la chitarra al giovane Paolo, timido ed emozionato, a più riprese simpaticamente punzecchiato dallo “showman Valerio“, come è in grado di fare solo un fratello maggiore che gioca a fare il papà, vestendo gli abiti più goliardici dell’autorità.
La magia, quella insita nelle “piccole cose” raggiunge la sua più appagante, perfetta ed emozionante espressione, allorquando, papà Valerio, culla tra le sua amorevoli braccia, il primo ospite d’onore della serata: sua figlia Emma che, tra qualche settimana, spegnerà la sua prima candelina, mentre intona “1000 se”.
L’amore di un padre, l’inconsapevole e tenera ingenuità di una bambina, la vita che disegna il tratto più felice e colorato che demarca il suo stesso senso.
È una notte alquanto suggestiva, per effetto della cruda umanità degli artisti presenti sul palco, talmente marcata da risultare afferrabile, non solo per una questione di vicinanza fisica al pubblico: è una notte fortemente sentita in cui Jovine non è una band, ma, semplicemente: Valerio, Michele, Paolo, Alessandro, Guido e ancora Paolo.
Uomini, semplicemente uomini, che hanno saputo e voluto portare in scena il loro essere, le loro anime, mettendosi a nudo con disarmante spontaneità.
Valerio, indiscusso ed esilarante mattatore della serata, conferma e rilancia quanto lasciato intravedere nel corso della partecipazione a “The Voice”, rimarcando una camaleontica e goliardica versatilità che tanto ha raccontato, prima dell’uomo e poi dell’artista. Un autentico e verace animale da palcoscenico, nato per stare sul palcoscenico, animato dalla sincera e caparbia voglia di stare sul palcoscenico.
Intrattenimento, ironia, lungimiranza, spigliatezza: Valerio, ieri sera, ha calato il poker, mostrando le molteplici e valide carte di cui dispone.
Grazie all’avvento sul palco del “secondo” ospite della serata, Ivan DopeOne, prendono voce e forma, altre due “piccole cose”: il messaggio di denuncia insito nella difficoltà di emergere che contamina la scena musicale partenopea, con la quale, quelli come Ivan e Valerio, si misurano e si destreggiano, senza farsi carico del gravoso fardello della commiserazione, attingendo caparbietà dall’avversità e tramutando la rabbia in grinta. L’interpretazione di “Napl’ sona”, accompagnata al pianoforte dal poliedrico Michele Acanfora, veste un sontuoso abito imbastito d’orgoglio e passionalità che tanto racconta del senso d’appartenenza che avvolge le anime di questa terra, capaci realmente di “fare musica”.
Un pezzo non cantato, ma interpretato, come la più moderna e sovversiva delle opere d’arte.
La musica che si rinnova e che si rivela capace di tingere quadri insoliti, originali, stravaganti, attraverso la fusione di timbri vocali diversi, eppure abile nel confluire verso un equilibrio armonico, estroso e mai banale: questa è la “piccola cosa” che emerge, invece, dal gemellaggio tra Jovine e La Pankina Krew. Doverosa e tutt’altro che scontata risulta la collisione tra “il viaggio di Jovine” e “Si, viaggiare”: il singolo realizzato proprio insieme alla band proveniente dalla periferia est di Napoli.
La presenza di Ivanò, Master Prod e Donix sul palco imprime una ventata di fresca e sincera voglia di dire: “io c’ero ed è stato un onore”.
“Stasera è andata in scena la pura emozione. Non è stata un’esibizione o un concerto, ma un viaggio all’interno del viaggio fin qui compiuto da Jovine e abbiamo voluto raccontarlo attraverso le nostre emozioni, com’è giusto che sia quando ad andare in scena è la musica. È stata una serata confidenziale, lo dimostra il fatto che ho avuto la possibilità di dedicare una canzone a mia madre.”
La canzone in questione è “Il cielo in una stanza”: l’ennesima “piccola cosa” forgiata in un’emozionante ed iridescente stella.
“C.C.C”, la poesia che si tramuta in musica mediante quell’encomiabile “Jovine version” di “Redemption Song”, “L’immenso”, “Me so scetat’ e tre”: il repertorio classico che abbraccia “la musica che verrà” attraverso “la prima volta dal vivo” di “Superficiale”. Il brano che preannuncia la nascita del disco che verrà, promettendo attraverso quel messaggio di disteso e distensivo amore, il sopraggiungere di una cascata di autentiche perle musicali.
Ogni volta che il pubblico in sala decide spontaneamente di accompagnare il ritmo delle canzoni attraverso il battito delle mani, in realtà, rivendica il proprio “senso d’appartenenza” verso quella musica, aggiungendo così un altro tassello all’elenco delle “piccole cose”.
Chi ha maturato una certa dimestichezza con le performance di Jovine sa che quando viene intonata la versione reggae di “Ma il cielo è sempre più blu” stanno per giungere “le presentazioni ufficiali” dei membri della band, ma, soprattutto, il preavviso che i titoli di coda iniziano a scorrere sulla serata.
“Il viaggio”, però, non può terminare prima di aver reso omaggio all’inno della band: “No time”, di aver dedicato “Una carezza in un pugno” a papà Italo: l’altra guest star della famiglia che ha saputo conquistare fama e notorietà attraverso l’incontenibile partecipazione da supporter sugli spalti negli studi di “The Voice”, ma, soprattutto, per disegnare nel mantello d’emozione che avvolgeva la platea, l’ultima, toccante e suggestiva “piccola cosa” capace di imprimere pennellate di brividi e bagliori negli occhi: “Sei”. Voce e pianoforte, sensibilità e speranza, anima e cuore, semplicità ed eleganza.
“L’ultima, ultima davvero” no, non l’hanno dimenticata, l’hanno proposta e riproposta, come sovente accade, alla fine: “Napulitan” la corona che suggella il successo e l’essenza di Jovine.
“A partire da domani, continueremo a fare musica, affinché, tra 10 anni, potremo vivere un’altra serata come questa. Faremo musica con la stessa voglia e la stessa passione di 10 anni fa, perché, attraverso la musica, voglio continuare ad emozionare ed emozionarmi.”
Sul palco e sulla musica di Jovine, neanche alla fine dell’autentico show proposto ieri sera è calato il sipario e dopo la temporanea sosta ai box, necessaria per fare il pieno di nuove miscele, “i contrabbandieri d’ammore” torneranno nuovamente in scena.
E questa non è una “piccola cosa”…