Se già ce ne fossimo dimenticati a poche centinaia di kilometri dall’Italia, sull’altro versante dell’Adriatico, la situazione è tutt’altro che tranquilla. Il conflitto israelo-palestinese continua ad alimentarsi tra tregue interrotte, atti d’odio e discriminazioni razziali; un conflitto che lo scorso luglio ha portato a 67 vittime sul fronte Israeliano, 65 delle quali soldati, , ed oltre 2000 su quello palestinese, di cui circa l’85% civili. Non è una scusa per raccontare la storia parteggiando per l’uno o per l’altra , né tanto meno lo scempio di questa estate può essere condotto ad immagine simbolo di un tira e molla che dura ormai da 70 anni. Quello che occorre è invece fare chiarezza su quella che è l’attuale situazione dei due paesi e del loro rapporto immancabilmente ostile: da un lato a gettare fuoco vi è la politica persecutiva di una delle facce più estreme e violente del sionismo (complice il silenzio dell’ONU e del mondo Occidentale), dall’altro vi è invece il giuramento di vendetta e di guerra che Hamas e la fetta di popolazione che l’appoggia portano avanti senza remora. In un clima del genere “il morto ci scappa”, è quasi normalità, e la normalità è a rischio di assuefazione. Tuttavia a far notizia questa volta è l’episodio che ha visto coinvolto l’ex ministro palestinese dei prigionieri Ziad Abu Ein, fino a due giorni fa responsabile del monitoraggio dell’occupazione israeliana. Il decesso è avvenuto per arresto cardiaco in ospedale, dopo esservi stato trasportato a seguito di una breve colluttazione con un soldato il quale, secondo le testimonianze riportate anche dall’ANSA, avrebbe colpito l’uomo al petto con l’elmetto causandogli potenzialmente il malore; secondo altre dichiarazioni invece sarebbe stato colpito col calcio del fucile, masoprattutto avrebbe fatto la sua parte anche il tanto gas lacrimogeno inspirato dal malcapitato. Difatti non si è trattato di un semplice face to face, bensì dell’ennesima manifestazione pacifica (i palestinesi stavano simbolicamente piantando degli ulivi nei pressi di Ramallah) finita male, quando i partecipanti sono venuti alle mani con alcuni coloni israeliani presenti in loco. Le origini vere e proprio del tafferuglio sembrano essere ancora più incerte delle cause dell’infarto di Abu Ein; ciò che invece appare fin troppo chiaro è che la Palestina è diventata una vera e propria polveriera dovuta a gravi instabilità politiche ed economiche, dove ogni pretesto è buono per rendere ancor di più la vita dei suoi abitanti un inferno. Ciò che urge domandarsi non è solo quando questo scempio finirà, bensì quando il civilizzato mondo Occidentale smetterà di volgere lo sguardo da un’altra parte ed inizierà a prendere delle serie contromisure a questa situazione insostenibile; quando ad esempio l’Unione Europea riconoscerà non solo uno ma entrambi gli stati, oppure quando l’Italia smetterà di alimentare il conflitto vendendo armi ad Israele, poiché il Bel Paese è esportatore del 40% delle armi che questo ha in dotazione: non armi qualunque, si tratta in buona parte di strumentazione di precisione e puntamento che hanno permesso la distruzione di decine di edifici “strategici”, tra cui anche diverse scuole ed ospedali che degli stessi fondi italiani avevano contribuito a costruire nella Striscia di Gaza. C’è solo uno schieramento possibile, ovvero quello del cessate il fuoco, del rispetto e della tolleranza reciproca. Le persone, specialmente i bambini, israeliani o palestinesi che siano, non hanno bisogno di un muro che li divida dai terroristi, bensì di scavalcarlo e di scoprire cosa c’è realmente dall’altra parte: la speranza che un giorno tutto questo arido odio finisca e si raggiunga un equilibrio stabile e duraturo.