Nel lontano 3 dicembre del 1967, a Città del Capo in Sudafrica veniva effettuato il primo trapianto di cuore su un essere umano, dal chirurgo Christiaan Neethling Barnard.
Appena il giorno prima era giunta presso l’ospedale ‘Groote Schuur’ Denise Darvall, reduce di un grave incidente d’auto, che costò la vita alla madre. La ragazza, che aveva dinanzi solo altre poche ore di vita fu la donatrice del cuore che venne trapiantato a Louis Washkansky sofferente di una malattia cardiaca. Con il consenso rassegnato del padre della giovane Denise, il dottor Barnard e un’ equipe di trenta medici lavorarono all’operazione che durò ben 9 ore ma che terminò con successo: il cuore ormai morto di Denise batteva regolarmente nel corpo di Washkansky.
La fama e la gloria che nelle seguenti ore acquisì Barnard non collimarono, però, con la morte del paziente a cui era stato innestato il cuore. Diciotto giorni dopo l’intervento, le condizioni dell’uomo erano ormai critiche; si accertò infatti una doppia polmonite causata dai farmaci che il paziente assumeva, malattia quindi incurabile.
Il dottor Barnard, artefice di un successo professionale irrealizzato fino a quel momento, divenne una vera e propria stella della medicina.
Ma la domanda a cui si vuole far chiarezza è: in cosa consiste e quali sono i rischi di un intervento del genere?
E’ da tener presente che nonostante siano trascorsi quasi cinquant’anni da quel fatidico giorno, un intervento di trapianto del cuore non è purtroppo considerato un semplice e poco invasivo intervento di routine.
Si tratta in effetti di un percorso medico estremamente delicato e che non conosce esclusioni di complicazioni a priori, ma che, se portato a termine con successo e senza intoppi, permette al paziente in questione di migliorare sensibilmente la qualità della vita tornando ad esercitare alcune delle attività che gli erano proibite da un generico male cardiaco.
Inoltre, questi tipi di interventi non sono all’ordine del giorno, poiché la richiesta di un cuore è maggiore della disponibilità dello stesso. Solitamente riguardano pazienti in età adulta, ma di rado troviamo anche casi critici in cui questi interventi vengono applicati su bambini e ragazzi.
Sono operazioni che divengono, ad ogni modo necessarie, per diverse ragioni, quali:
-l’ostruzione delle arterie coronarie che portano sangue e ossigeno al miocardio;
-malfunzionamenti delle quattro valvole cardiache;
-difetti congeniti del cuore, ovvero anomalie presenti sin dalla nascita. E’ proprio questo che costituisce la maggior parte dei casi in cui l’intervento viene effettuato ad un giovane.
I rischi ci sono, sarebbe assurdo sminuirli e sono costituiti in primis, come nel caso di Washkansky, dall’assunzione post-intervento di farmaci immunosoppressori che riducono le possibilità di rigetto dell’organo. Altre possibili cause di complicazioni sono le infezioni causate dalla riduzione delle difese immunitarie derivanti dai farmaci o ancora tumori, che secondo le statistiche, vengono accusati da almeno un paziente su nove; ultima ma non meno pericolosa, può essere l’insufficienza renale ovvero il drastico calo delle facoltà funzionali di uno o di entrambi i reni, causando di conseguenza stanchezza, ritenzione idrica, sangue nelle urine e nausee continue.
A complicare tutto resta comunque la questione del tempo e dell’inserimento nelle liste d’attesa, che vengono certificate ed accertate da un team di specialisti che comprendono anche psicologi, assistenti sociali che valutano appunto l’idoneità di un paziente, il quale non deve avere più di 65 anni e né deve riscontrare gravi malattie infettive come l’AIDS. Anche l’instabilità mentale e la dipendenza da droghe, alcol e fumo possono compromettere l’inserimento in lista, che se dovesse alla fine verificarsi potrebbe perdurare fino a svariati mesi.
Nei casi più sfortunati, il paziente potrebbe morire ancor prima del trapianto o se valutato un caso grave, può essere sottoposto ad un intervento terapeutico temporaneo.Resta comunque la speranza che l’evoluzione scientifica e più nello specifico della medicina, permettano in futuro di attuare delle tecniche molto meno invasive e che migliorino l’affidabilità delle conseguenze post-operatorie.