Li riconosci subito i tuoi simili. Portano gli occhiali vistosi e non guardano mai a terra. Stanno sempre col naso tra gli ultimi piani dei palazzi, a spiare nelle vetrine e a nutrire la speranza di scorgere un raggio di sole tra le nuvole ammuffite.
L’acqua la temono, li vedi tremare e incappucciarsi, saltellare per riscaldarsi e sfregarsi le mani, dire “brrrr” e non vergognarsi. Inciampano in queste gestualità e ti ci rivedi. Li guardi, ti sorridono e sei sicura che sono simili a te.
Riconosci un tuo simile dalla barba un po’ incolta, la cartella sempre un po’ troppo consumata e le scarpe da tennis ad ogni ora del giorno. Stanno a comparare i prezzi ai supermercati, sono impacciati con la cassa automatica e le dicono “thank you” quando hanno finito di pagare. In metropolitana vanno a caccia del posto libero e se non c’è, non se ne rammaricano. Aspettano. Scattano a molla se vedono un anziano e aspettano un altro posto libero. Loro aspettano.
Dalla cartella slacciata e lacerata cavano fuori quantità indefinibili di cose: l’acqua prima di tutto. Loro l’acqua non la comprano, se la portano da casa.
Leggono i libri di carta, quelli con la copertina che si piega dietro alla parte più corposa del libro (quella che non hai ancora letto) per renderlo più maneggevole mentre mantengono lo zaino, inforcano gli occhiali da lettura, si tengono all’asta gialla del vagone e aspettano il posto libero.
Leggono ridendo, guardandosi attorno per condividere l’emozione. Non hanno mai vergogna, stanno solo leggendo. Le espressioni del viso te li rendono familiari, amici. Si, sono tuoi simili.
Una volta incontrai un simile in metropolitana, mi aspettava un lungo viaggio e a giudicare da come s’era messo comodo, anche lui aveva una lunga tratta davanti. C’avrei scommesso qualsiasi somma che era un simile. Aveva i lacci delle scarpe perfetti, la suola bianca tirata a lucido. Le scarpe non erano nuove. Mangiava un panino con la carta argentata e gli si leggevano negli occhi i salti di gioia delle sue papille gustative. Mi divertiva il suo spettacolo. Io non mi vergogno dei miei simili: li adoro.
Dopo qualche fermata, qualche morso e qualche sguardo scambiato distrattamente, mette via il panino e tira fuori uno di quegli aggeggi elettronici che servono a leggere i libri, ma non li puoi sfogliare.
Quelle scatolette nere con una copertura solitamente colorata che non hanno copertina da girare dietro o pagine da leccare o segnalibri da inventare. Non era un simile. I simili leggono i libri veri, non le scatole elettroniche.
La delusione, credo, mi si dipinse in faccia e cominciai a farmi dei rimproveri. Come avevo potuto confondere un simile con un nonsimile? Cosa mi aveva ingannato? Cosa mi era sfuggito? Perchè?
Qualche fermata e qualche rimprovero dopo, mi accorsi di aver involontariamente o forse istintivamente fissato gli occhi su quella pagina elettronica immobile. Senza odore. Uguale a quella di prima. Uguale a quella di dopo. Mi si accese un sorriso innaturale, stranito, sorpreso. Su quello schermo non c’erano K. Non c’erano nemmeno le W. Di J nemmeno l’ombra. Ogni paio di parole c’erano dei bisillabi o trisillabi che avevano senso. Gli articoli determinativi. Le congiunzioni.
Era un simile. Non mi ero sbagliata.
Era un italiano solo un po’ più moderno.
Ilaria Romano