Erano gli anni ’60, c’era la beat generation, la musica dei Beatles e Marilyn Monroe; in Italia, calcio e Sofia Loren con la loro popolarità, attraggono i giovani alla televisione e ai rotocalchi; l’occupazione universitaria conquista le prime pagine dei giornali e le piazze brulicano di ragazzi. L’energia e la positività di una sana protesta politica e generazionale creano così tanto entusiasmo che persino un evento tragico come l’alluvione di Firenze riesce a convogliare assieme giovani provenienti da tutt’Italia a dare una mano.
La televisione oggi ci fa i telefilm, i film, ci cantano ancora canzoni sui Mitici anni sessanta: giovani studenti o lavoratori che si creano un futuro studiando o seguendo le impronte dei padri, hanno saldi modelli, una casa in cui stare e il sogno di sposare una ragazza dagli stessi ideali e costruirsi una vita propria.
Negli anni ’70 la libertà ambita, la trasgressione esibita sono le armi dei giovani “settantini”; i quiz televisivi che fanno bramare il guadagno immediato e il successo, lo scintillio dei programmi in prima serata: spettacolo e politica sempre in primo piano, nella vita di tutti. Gli atti di sovversivismo e le organizzazioni terroristiche scrivono pagine di storia con inchiostro rosso, Carosello dice “Buona Notte” ai bambini e i giovani stanchi di tirar sassi si mettono a ballare con Heather Parisi. In quest’epoca avremmo portato pantaloni a zampa e ci saremmo sentiti dei rivoluzionari: noi “giovani in tuta” del maledetto XXI secolo, la tuta non l’avremmo indossata MAI!
Gli anni ’80 li conosciamo bene: sono la culla in cui è nata la nostra generazione, in cui si sono covate speranze e illusioni, dove il futuro della tecnologia, della modernità e dell’avanguardia hanno fatto sognare a giovani famiglie un futuro brillante per i propri figli.
Da quelle grandi aspettative siamo venuti fuori noi: disoccupati dalla nascita, impossibilitati a realizzare i propri sogni.
Da principio, assieme alle speranze dei nostri genitori che pregavano affinché questo clima di immobilità si dissolvesse per regalarci un futuro concreto, chi decideva di non lavorare, prediligeva indirizzi universitari con effettive aspettative occupazionali sperando di compiere gli studi e trovarsi impiegati. Io ho scelto la via della Passione e seppur volessi auto-rimproverarmi di aver imboccato la selva oscura piuttosto che la giudiziosa via della matematica, non saprei che argomentazioni scegliere perché nemmeno gli ingegneri (classe di studenti quotati in ogni ambito lavorativo) lavorano in Italia.
Ma come siamo finiti in quel vortice flatulento che trascina il giovane del 2014 ad uno stato di immobilità e continua ricerca di lavoro? Parlo di professionisti, quelli che hanno scelto la matematica, la biologia, la chimica; insomma quelli a cui in potenza è stato promesso un futuro “occupato” e che in atto sono occupati a inviare curriculum e a sperare che il telefono squilli. Le risposte sono infinite: è colpa della politica, la crisi mondiale, i partiti arrivisti, il sistema burocratico, se i vecchi non vanno in pensione i giovani non possono occuparsi, tutta colpa dell’America, l’euro è una catastrofe, meglio la lira, la crisi, la crisi, la crisi, LA CRISI!
Assodato che la colpa della stasi e della disoccupazione non è della nostra generazione, ma di quelle precedenti che hanno preferito accartocciarci il futuro piuttosto che stringere un po’ i denti, la mia domanda sorge spontanea: vogliamo restare a guardare?
In tutte le epoche ci sono stati dei problemi, cause perse, porte chiuse, disperazione e disoccupazione; magari non a questi livelli, ma c’erano!
Loro, quei ragazzi degli anni ’60, ’70, ’80, hanno reagito e hanno scritto la storia che noi ammiriamo e a cui guardiamo con interesse e ammirazione. Noi la storia la stiamo scrivendo o la stanno scrivendo per noi? Faranno delle fiction anche su di noi: “La generazione tablet”, “meglio rimanere sul divano”, “adda passà a’ nuttata”, ”il lancio del curriculum”, “voglio emigrare ma mamma non vuole”, “ho trent’anni e non so come dire alla mia fidanzata che non ci sposeremo mai”, “mattinate in pigiama”, “aspettando il weekend per fare qualcosa” e simil titoli. Siamo tutti felici e contenti?
Perché la nostra generazione preferisce alzare bottiglie di birra anziché bandiere?
Le manifestazioni saranno anche passate di moda, le rivoluzioni porteranno solo a repressione e violenza, la ribellione sarà anche figlia degli anni ’70; ma dobbiamo essere tutti consapevoli che i modi di manifestare un disappunto, un disagio e di ribellarsi al sistema, alla politica o a un regime totalitario e la rabbia, l’agitazione l’istinto di crearsi e difendersi il futuro non sono dei pacchetti preconfezionati che sono stati dati alle passate generazioni e che loro hanno semplicemente scartato e messo in atto: LORO LE HANNO INVENTATE QUESTE COSE.
Se le riteniamo obsolete, antiche, vintage, old o demodé, dato che siamo figli della digitalizzazione (e che stiamo tutti almeno 12 ore al giorno avanti al computer), per quale motivo non riusciamo a inventarci una nostra rivoluzione?
Un modo per esplodere assieme e sprigionare il nostro disagio? Forse, cari sleeping fellas, ci meritiamo quello che abbiamo!
Ilaria Romano