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Napoli: pazienti usati come cavie in ospedale

Redazione Napolitan di Redazione Napolitan
16 Novembre, 2014
in Cronaca, In evidenza
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Napoli: pazienti usati come cavie in ospedale
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10599311_10152419516566976_3843141213806077354_nIl racconto della guerra combattuta per acquisire il predominio nel settore della distribuzione dei medicinali, la testimonianza di come sia stata alterata la gestione dei rapporti tra medico e casa farmaceutica, la descrizione di uno scenario torbido nel quale si muovono interessi diversi, ma finalizzati a un unico obiettivo: «Agevolare la diffusione di medicine da somministrare ai pazienti degli ospedali per incrementare gli utili delle società che li distribuiscono».

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Le 228 pagine depositate dal gip Antonio Cairo hanno fatto scattare gli arresti domiciliari per il manager del Policlinico della Sun Pasquale Corcione, l’imprenditore farmaceutico Massimo Petrone e altri cinque indagati.

Come si debba condurre quella battaglia per acquisire il predominio nel settore, lo spiega il responsabile marketing della società Biotest Italia srl, Enrico D’Aiuto.

Sono le 17.27 del 7 aprile 2010 e il manager illustra al telefono «la strategia da seguire per assicurare la penetrazione commerciale dell’azienda farmaceutica». Una strategia che il giudice, a pagina 102 del suo provvedimento, riassume così: «Estendere a pazienti ospedalieri, almeno in numero di quindici, trattamenti terapeutici a base di farmaci commercializzati dalla società. Viene considerato funzionale agli interessi dell’azienda che questa diffusione commerciale sia attuata attraverso le prescrizioni di più medici in servizio presso diverse strutture sanitarie, allo scopo di inserire il loro nome nella sperimentazione clinica, parrebbe a prescindere dalla validità terapeutica».

Insomma, se questa storia fosse vera, chi commercializzava quei medicinali ne ignorava l’efficacia: «Il loro nome sta sullo studio, che ce ne importa».

È a questo punto che — stando alla ricostruzione della Procura di Napoli — si registra un’attività dei responsabili della Biotest finalizzata ad avvicinare medici ospedalieri e a stringere accordi per indurli ad agevolare la diffusione di specialità medicinali della società.

E quegli accordi sarebbero stati conclusi in cambio di «regali o altre utilità» ai camici bianchi.

Come il viaggio in Grecia. I cesti di creme solari. O quei nuovi iPad che il 10 maggio 2010 Enrico D’Aiuto ordina di acquistare «in quanto destinati ai medici». Ventuno giorni dopo (il 31 maggio) la strategia di D’Aiuto si fa più esplicita: «Il modo migliore è quello di fare vedere indice e pollice» ai medici, cioè «elargire somme di denaro per ottenere in cambio la prescrizione di farmaci».

Fosse vero, ci sarebbero «medici ospedalieri» che ricevono corrispettivi non dovuti per privilegiare certi farmaci. E, per farlo, arrivano anche a «non modificare o cambiare il trattamento terapeutico in funzione degli interessi economici della società».

Quei medici sono estranei all’inchiesta in corso, è bene specificarlo. Eppure — rileva il giudice — «sarebbe stata doverosa una riflessione investigativa più attenta sul ruolo di una serie di soggetti appartenenti all’area medica coinvolti nelle anomalie segnalate. Si tratta di medici compiutamente individuati, pubblici ufficiali che accettano senza alcuna remora diverse utilità per la prescrizione dei farmaci commercializzati dalla ditta».

La società, però, non si rivolge solo a loro. Si muove su binari paralleli, prova ad agganciare gli amministratori pubblici e coperture istituzionali. E Giuliano Tagliabue, amministratore unico della Biotest, il 24 giugno 2010 illustra al telefono (intercettato) le strategie che deve attuare la società cooperativa Bioricerche: «Si tenta di proporre come responsabile scientifico del consorzio Annamaria Colao. (…) Granata a questo punto non potrebbe porre più nessun ostacolo».

Annamaria Colao è una delle più brillanti scienziate italiane, ma poco meno di tre mesi prima il marito — Stefano Caldoro — è stato eletto presidente della Regione. La prof, però, è persona attenta, e nella vicenda non vuole farsi coinvolgere a titolo personale. Così — come spiega lo stesso Tagliabue il 28 giugno 2010 nel corso di una telefonata con Massimo Petrone — «l’Annamaria ha detto che è d’accordo se entra anche il reparto dove lavora o l’Università».

Gli imprenditori farmaceutici vogliono il Cardarelli e il Policlinico, ma non si accontentano.

Puntano a Roma, al Fatebenefratelli, a Tor Vergata, al Bambin Gesù.

E si preoccupano di come i dirigenti della società in Germania possano valutare le loro iniziative.

“È difficile spiegare come funzionano le cose in Campania a chi non le conosce, – conclude il gip – ma come funzionano le cose, purtroppo lo attestano le conversazioni”.

 

Tags: aziende farmaceutichenapolitruffe
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