“Il suicidio assistito è un’assurdità perché la dignità è un’altra cosa che mettere fine alla propria vita.Non giudichiamo le persone ma il gesto in sé è da condannare. Questa donna lo ha fatto pensando di morire dignitosamente, ma è qui l’errore, suicidarsi non è una cosa buona, è una cosa cattiva perché è dire no alla propria vita e a tutto ciò che significa rispetto alla nostra missione nel mondo e verso le persone che si hanno vicino».
Questo è quanto detto dal presidente della Pontificia accademia per la vita, monsignor Carrasco de Paula, rispetto al caso di Brittany Maynard, la ragazza americana malata di tumore terminale che ha scelto di mettere fine alla sua vita alle sue condizioni.
Morire con dignità. Questa frase necessita di una precisazione, e cioè, stabilire il limite entro il quale una morte è considerata dignitosa. Lo è forse una morte utile? Una morte violenta o una morte da martire? Da quando una tragedia porta in se un sistema di valori per cui la mia scomparsa è più rispettabile della tua? Personalmente faccio molta fatica a schematizzare in un assunto solo le dinamiche psicologiche e di coscienza che, sia chiaro non sono giudicabili proprio perché così private, portano ad una scelta del genere. Allo stesso modo non riesco a spiegarmi i motivi di tanta teologia morale calata come una spada di Damocle su una sofferenza che non era evitabile.
Se la coscienza è un santuario in cui non si può entrare, come dice il monsignore stesso, quale è esattamente il pulpito dorato da cui ci si innalza per puntare il dito ed applicare il più antico e misero mezzo di attacco: il giudizio?
Brittany sarebbe morta comunque, in un letto d’ospedale e con atroci sofferenze. In qualunque cosa noi crediamo questo è quello che sarebbe successo, questo è un fatto incontrovertibile. Allo stesso modo è un fatto che Brittany sia bella, giovane, innamorata e malata. Per quel che ne sappiamo non ha pregresse tendenze suicide, né recondite infelicità che la spingono ad un atto cosi estremo. È una donna che ha ben chiaro il suo destino e la consapevolezza di non poterlo cambiare, ma decide di continuare a vivere secondo le sue scelte e muore nel rispetto di queste. Questo è quanto. Non c’è nulla di ideologico, è libero arbitrio. Semmai le costruzioni e le distorsioni mediatiche cucite intorno a questa storia, nello stesso modo che fu per Piergiorgio Welby o Eluana Englaro, partono da assunti ideologici che nulla danno e nulla tolgono a chi vive esperienze di questo tipo.
Facciamo attenzione a mettere sul banco degli imputati questa ragazza. Facciamo attenzione a trattarla come la marionetta dei propagandisti favoreli all’eutanasia. Perché fare ciò significa svuotare questa donna e la sua vita stessa di significato. Giudicare il suo gesto senza fermasi un’attimo solo a riflettere significa, concedetemelo, giudicare Brittany stessa.
Credo fermamente nel bisogno di prendere coscienza del fatto che chi è toccato da una condizione esistenziale così atroce dovrebbe avere la possibilità di vivere in una società che almeno gli consenta di poter scegliere le modalità di quanto è inevitabile. Non facciamo l’errore di considerare queste posizioni come un’innalzamento ad una cultura dello scarto, perché qui nessuno ha mai pensato, neanche solo per un secondo, che una vita malata è una vita da scartare. Facciamo ben attenzione: la morte è morte, da qualsiasi lato la vogliamo guardare, ma esiste, ed anche questo è un fatto incontrovertibile, la possibilità di accompagnarsi all’ inevitabile con dolcezza Non parliamo della scelta di morire, ma della scelta del mezzo, ripeto, che accompagna con inimmaginabile sofferenza a quello che non si è scelto.
Smettiamola di giocare al nascondino dei diritti, nessuno sarà mai spinto a morire solo perché esiste una norma che consente il suicidio assistito. Nessuno favorisce una società che non vuol pagare i costi della malattia. Smettiamola di strumentalizzare irrispettosamente chi decide degli ultimi istanti della propria vita e della propria morte, perché è questo che significa mettersi di fronte a tale situazione con atteggiamento indegno.
Piuttosto cominciamo ad ammettere che l’ angoscia che tali situazioni ci provocano, per private o collettive che siano , ci spaventa e ci paralizza, facendoci reagire come sappiamo fare meglio: chiudere i canali di un dibattito quanto mai attuale che prima o poi ci esploderà in faccia.