Un assistente capo della polizia penitenziaria, in servizio presso il carcere del Tricolle, si è tolto la vita. L’uomo, di 46 anni, si è ucciso nella sua abitazione di Ariano infilandosi un sacchetto di plastica in testa. La morte è sopraggiunta per asfissia. Lo rende noto Eugenio Sarno, segretario nazionale della Uil penitenziari. Ancora ignote le cause del gesto.
Una lista che sembra non finire mai, un vero e proprio bollettino di guerra: dal 2000 ad oggi più di cento poliziotti penitenziari si sono tolti la vita nell’indifferenza generale dell’opinione pubblica e, peggio ancora, sotto lo sguardo impotente ed incapace di un’amministrazione che pensa di risolvere problematiche di tale complessità attraverso qualche seminario o avvalendosi della statica compilazione di noiosi questionari al personale degli istituti.
Suicidi che si susseguono incrementando l’elenco delle vittime in maniera alquanto allarmante.
Tutto ciò accade sotto lo sguardo impotente dei “sopravvissuti” che al dolore della perdita di un amico-collega sopportano quotidianamente uno stress fisico che, inevitabilmente, si aggiunge ad una condizione psicologica di sconforto per un lavoro oggi privato di ogni stimolo, perché svuotato della sua vera essenza.
In tale ottica, i messaggi di cordoglio che le circostanze impongono risultano inariditi di qualsiasi valore: frasi di circostanza dietro le quali fatica a nascondersi il sempre maggiore imbarazzo che gronda dalla coscienza di chi detiene gravi responsabilità verso quell’ennesima morte e verso le consegue che quell’ennesima morte avrà portato.
E così, quasi accettando un destino beffardo e crudele, ma inesorabile, si guarda avanti chiedendosi: chi sarà il prossimo?
Perché una cosa appare inequivocabilmente chiara in questo delicato momento storico: il prossimo suicidio ci sarà. È solo questione di tempo.
Nel frattempo continuiamo a subire una gestione carceraria figlia della precarietà e delle false speranze partorito dall’Europa di rendere gli istituti più umani per i detenuti, dimenticando che un carcere inumano per i detenuti lo è anche per chi dentro ci lavora.
Ciò che desta maggiore rabbia e sconforto però è subire il silenzio delle istituzioni, l’inerzia dei vertici e gli insulti dell’opinione pubblica che, adeguatamente plagiata da certa stampa che sa trattare ad arte taluni episodi, trasforma un Corpo già straziato (la Polizia Penitenziaria) in un facile bersaglio mediatico. Mentre le chiacchiere si sprecano, i fatti parlano chiaro: più di cento morti in 14 anni.
Una cifra che dovrebbe far riflettere e far vergognare chiunque abbia un minimo di senso di appartenenza ad una istituzione nella quale chi opera, ad un certo punto della sua esistenza, non trova modo migliore per farsi sentire che somministrarsi la morte.
La vergognosa frequenza con cui si sta ripetendo questo macabro rituale di morte sta pericolosamente lasciando molti nell’indifferenza, nella rassegnazione che nulla poteva essere fatto per l’ennesima morte e che ciò che si è verificato, semplicemente “doveva succedere”.