“Mi chiamo Stefano Cucchi. Sono morto il 22 ottobre di cinque anni fa.
Mi hanno processato per direttissima e messo in custodia cautelare al carcere di Regina Coeli. Spacciavo e mi drogavo, ma gli ematomi sul mio volto il primo giorno d’udienza poco avevano a che fare con questo. Un carabiniere ha scritto male i miei dati nel verbale, o meglio, non ha scritto i miei, ma quelli di un ragazzo albanese senza fissa dimora. Avrei potuto usufruire degli arresti domiciliari e persino, chissà, essere ancora vivo.
Dopo l’udienza le mie condizioni di salute sono peggiorate. Mi hanno visitato all’ospedale Fatebenefratelli e messe a referto lesioni ed ecchimosi alle gambe e al viso, una frattura della mascella e dell’addome, un’emorragia alla vescica e due fratture alla colonna vertebrale. Avrebbero dovuto ricoverarmi, ma non è successo. In carcere muoio dentro e violenza vuole che muoia anche il mio corpo. Chiudo per sempre gli occhi all’ospedale Sandro Pertini il 22 ottobre 2009: peso solo 37 chilogrammi.
Non posso non pensare alla disperazione della mia famiglia. Sapete, non sono riusciti a vedermi se non come un cadavere. Hanno avuto notizia di me quando l’ufficiale giudiziario gli ha notificato l’autorizzazione all’autopsia. Inverosimile, come la trama di un action movie di serie b.
Durante le indagini sulla mia morte c’è stato un eco di negazione. Una bella scrollata di spalle e di coscienza, diciamocelo. Persino il sottosegretario di Stato Giovanardi si è preso la briga di precisare che ero morto di anoressia e tossicodipendenza. Ha scacciato il mio dolore come si fa con una mosca fastidiosa. Il fatto è che da morto facevo paura, ero pericoloso. Se fossi riuscito a diramare la cortina di fumo nella quale ho perso la vita, forse questa assurda perdita sarebbe servita a qualcosa. Oggi posso dire che non è stato ascoltato nessuno, neanche chi ha visto con i propri occhi il circo degli orrori a cui sono stato sottoposto. Ma andiamo per gradi.
Le indagini preliminari hanno sostenuto che a causare la morte sarebbero stati i traumi conseguenti alle percosse, il digiuno e la conseguente ipoglicemia, la mancata assistenza medica, i danni al fegato e l’emorragia alla vescica. Sapete come avrei potuto evitare l’ipoglicemia? Un cucchiaino di zucchero, un maledetto cucchiaino di zucchero.
Gli agenti di polizia penitenziaria Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Dominici, i medici Aldo Fierro, Stefania Corbi e Rosita Caponnetti. Questi alcuni degli indagati. Tredici in tutto. Tredici volti che non hanno voluto guardarmi.
Il 27 novembre 2009 una commissione parlamentare d’inchiesta giunge alla conclusione che sono morto per abbandono terapeutico. La procura di Roma contesta ai medici del Pertini il favoreggiamento, l’abbandono di incapace, l’abuso d’ufficio e il falso ideologico. Agli agenti della polizia penitenziria, invece, lesioni e abuso di autorità.
Tre anni dopo, però, i periti incaricati dalla corte affermano che le lesioni riscontrate post mortem sul mio corpo potrebbero essere causa sia di un pestaggio che di una caduta accidentale: “ non vi sono elementi che facciano propendere per l’una piuttosto che per l’altra dinamica lesiva“. Da questo punto in poi comincio ad essere un po’ confuso. Chi mi ha ucciso? Di cosa sono morto?
Il 5 giugno 2013 la III Corte d’Assise condanna in primo grado quattro medici dell’ospedale Sandro Pertini ad un anno e quattro mesi di reclusione e, il primario, a due anni per omicidio colposo, ma con pena sospesa. Sai che novità. Il PM aveva inoltre chiesto una pena a quattro anni di reclusione per gli infermieri e due anni per gli agenti penitenziari.
Sono stati assolti per insufficienza di prove.
Il 31 ottobre 2014 la Corte d’Appello ha assolti tutti gli imputati, anche i medici. Assolti sulla base degli stessi elementi per i quali erano stati condannati.
Oggi io non so perché sono morto, ma so cosa mi ha ucciso. L’omertà, la paura, le bugie.
Mi ha ucciso lo Stato e mi hai ucciso tu. Mi ha ucciso questo paese che che non sa distinguere tra l’evidenza e la prova stessa di questa.
Mi ha ucciso l’incuria e l’ indifferenza che chiude gli occhi. Hanno tutti dimenticato che, nonostante la dipendenza, nonostante una vita punteggiata di cadute io sono un’ essere umano che merita giustizia.
Francesco Nicito, agente della questura di Bologna, dopo la sentenza ha espresso piena soddisfazione per l’assoluzione di tutti gli imputati. Sostiene che ho pagato le conseguenze della mia vita dissoluta. No, non ci sto. Questa vita complicata mi ha portato si in quel luogo d’orrore, ma a fare di me un cadavere è stata una mano che non mi appartiene e, a fare di me il martire che sono oggi, l’appendice di omertà che corrompe questo Stato che tanto abusa del suo ufficio. Sono morto due volte, e forse con più violenza in un’ aula di giustizia.”
Stefano Cucchi siamo noi, come noi siamo lo stato ed i suoi morti. Siamo la foto di un cadavere in aula che nessuno ha voluto guardare. Siamo un diritto calpestato, siamo il limite della legalità. Siamo il dolore di una famiglia messo alla gogna. Siamo i testimoni di un abominio.
Siam Ilaria Cucchi, che non si arrende, perché le manca quel “tossico di suo fratello”. Siamo Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Carlo Saturno.
Siamo la civiltà che non ammette il monopolio della forza.