I Napoletani amano il Calcio, visceralmente e profondamente, e come dichiarò il tecnico Marchesi, che sfiorò lo scudetto nel 1981, ne sono anche profondi competenti.
Perché?
O meglio, perché i Napoletani sono così attenti, così precisi, così “mobilitativi”, mi si passi il neologismo, solo nei confronti del beneamato pallone?
Perché si attivano, fremono, e combattono, solo per quegli undici ragazzi con la maglia azzurra, e trovano le radici della propria cultura e tradizione, con i relativi simboli riesumati per l’occasione, solo quando si tratta di sostenere la propria squadra del cuore ?
Per il resto della propria esistenza, invece, sono molto passivi, attendisti, la battuta di Eduardo , in Napoli Milionaria, “Adda passà ‘a nuttata”, indica la filosofia di vita di un popolo, che preferisce aspettare gli eventi, aspettare il passaggio della bufera, e poi uscire al sole, mai una volta che in quella “nuttata” si sono messi all’opera per indirizzare gli eventi nel modo
più conveniente per loro, o meglio, solo una volta, quando si misero in testa che i Tedeschi se ne dovevano andare, e non ce ne fu per nessuno. Per il resto, il comportamento della città è stato sempre galleggiante fra la rassegnazione ed il fatalismo, quando arrivarono i piemontesi, in Irpinia , nel Sannio, nel Cilento, in Lucania, in Calabria, nelle Puglie, vi furono dieci anni di grossa resistenza, bollata col marchio infamante di brigantaggio, a Napoli no, a Napoli si delega agli altri il lavoro sporco e si aspettano i risultati, arrivano i Napoleonici, al comando di Championnet, si fanno ammazzare in tanti, sul ponte dei francesi, per fermarli, ma tutti “lazzari” infervorati dai preti, il resto della città aspettava i francesi per delegare il comando, e così al ritorno dei Borbone, e così all’arrivo dei Savoia.
Quello che è stato fatto alla città dagli anni ‘50 in poi, in altre parti avrebbe previsto mobilitazioni di massa, il sacco di Napoli (vedi “Le mani sulla città”, di Francesco Rosi) iniziato in quegli anni e mai concluso è passato sulla testa di due generazioni di napoletani, con poche grida nel deserto dell’assuefazione e del “mangia tu, che mangio anch’io”.
Ed allora: il calcio.
Il napoletano nel calcio trova d’incanto la sua redenzione, trova l’ideale che lo spinge a spendere soldi, a sobbarcarsi chilometri e chilometri per seguire quei ragazzi che rappresentano, per esso, la propria patria, la propria terra, e che rappresentano le sue voglie di rivincite sul destino. Il napoletano crede molto nel destino, e quindi non crede che si possa modificare qualcosa dell’esistente, ma per il calcio fa un’eccezione, per questo carattere e questa mentalità, che Luciano De Crescenzo considerava figlia della filosofia epicurea, il napoletano delega agli altri il combattere per sé.
Ed allora sono i calciatori, i moderni mercenari assoldati dai napoletani a far garrire i loro vessilli, e la partita, lo stadio, diventano il campo di battaglia, e la trasferta diventa lo sbarco in Normandia. Del resto, una strofa della famosa canzoncina popolare, lanciata all’arrivo di Maradona a Napoli: “Maradona è meglio ‘e Pelè”, diceva proprio: “levancelle tu ‘o scuorno a faccia ‘a sta città” e come si dice “vox populi, vox dei.”