Oba è un ragazzo senegalese e ha 8 anni.
In realtà, la sua prorompente stazza fisica lascia facilmente presagire che di primavere ne ha vissute e superate molte di più.
Tuttavia, solo quando è giunto in Italia ha iniziato a festeggiare il compleanno.
La sua vita è iniziata quando è sbarcato in Italia, in pratica.
Una barca improvvisata, per sfuggire alla miseria e alla povertà di quella terra che, tuttavia, rappresenta l’unico bagaglio custodito nel cuore, insieme alla speranza di una vita migliore.
Oba è uno di quegli extracomunitari nei quali quotidianamente ci imbattiamo, uno di quelli che con un berretto tra le mani, improvvisa frasi in un dialetto arrancato e maccheronico, per racimolare qualche spicciolo in prossimità di attività commerciali.
Bar, tabaccherie, supermercati: luoghi trafficati dai cittadini comuni, posti di lavoro estemporanei per chi rimedia spiccioli e briciole di dignità.
Oba, però, è diverso dagli altri: lui, il Senegal, non lo ha mi dimenticato, piuttosto lo ha portato con sé nella sua nuova vita e lo racconta nei canti e nei balli che incessantemente scandiscono le sue ore di lavoro.
Oba canta e balla la sua terra, rivendica le sue radici e riversa la sua nostalgica rabbia in quei canti, in quei balli, per i quali è spesso schernito e preso di mira dai passanti, i commercianti, spazientiti, gli intimano di stare un po’ zitto, perché, lui, Oba, è capace di andare avanti per ore, animato e motivato da quella malinconica e caparbia voglia di dare forma e voce al sentimento d’amore che, ancora ed indissolubilmente, lo lega alla sua terra.
Senza strumenti né basi musicali, Oba si serve solo della sua voce e delle sue mani. Non gli occorre altro per partorire “la sua musica”.
Oba canta rabbia e amore.
Oba balla nostalgia e speranza.
E c’è chi, calpestando frettolosamente quel marciapiede, crede che stia “solo” chiedendo l’elemosina.
Oba vive in un monolocale, in uno di quei palazzi che costeggia quel groviglio di vicoli che si sviscera nei pressi del Corso Garibaldi, si ritiene fortunato, perché riesce a “vivere” in un appartamento quantomeno decoroso che dispone di acqua e corrente elettrica.
E questa premessa lascia presagire tanto riguardo le condizioni in cui, invece, “sopravvivono” i suoi connazionali e compagni di sventure meno fortunati.
La sua vita e quella dei suoi coinquilini è scandita da una tabella settimanale ben definita: nei giorni pari vanno a lavorare a Battipaglia, nelle piantagioni o in qualsiasi altro posto vengano “mandati” perché c’è richiesta di manodopera. Si spostano con i pullman e giungono a casa al tramonto, stremati, con poca voglia perfino di parlare. Oba racconta che a volte è talmente stanco che non dispone neanche della forza necessaria per mangiare.
Nei giorni dispari, invece, vengono “mandati” a chiedere l’elemosina in prossimità di attività commerciali.
A ciascuno di loro viene designata una “zona di pertinenza”.
A Oba è toccata la provincia e mi confida che anche sotto quest’aspetto è stato più fortunato di altri suoi compagni o “fratelli”, come li chiama lui, perché gli è capitata “la gallina dalle uova d’oro”: quella provincia nell’ambito della quale, malgrado la crisi, girano ancora soldi e circola gente benestante.
I suoi fratelli che piantonano Napoli centro, invece, si destreggiano tra assai più cospicue e spinose difficoltà.
Eppure, nel caso di Oba, credo che sia l’umanità che trapela dai suoi occhi e dal suo canto a legittimare le offerte spontanee dei pedoni, ma dalle poche parole che farfuglia in quell’italiano stentato, trapela tutt’altro che la consapevolezza di essere un “essere speciale”.
Una delle tante peculiarità di Oba è che non accetta solo soldi, ma tutto quello che la gente che incontra e che non lo dribbla con frettolosa e cinica indifferenza è disposto a donargli: coperte, vestiti, cibo, anche un sorriso, perché è tutt’altro che scontato che gli occhi che s’imbattono in lui siano capaci di dispensarne.
Il cibo è un fattore fondamentale per assicurarsi la sopravvivenza, più dei soldi, perché Oba lascia intendere che alla fine della giornata, il guadagno va spartito con chi gli ha procurato quel posto di lavoro.
Non mi è dato sapere se a costui spetta una provvigione, la metà del guadagno o una cifra antecedentemente pattuita, quando gli faccio domande a riguardo, Oba si rifugia nel suo rabbioso e malinconico canto.
E fa lo stesso quando gli chiedo dei sogni e dei progetti legati al futuro.
Attraverso le emozioni riversate in quel canto, gli occhi di Oba, tuttavia, mi hanno consentito di “vedere e sentire” quello che neanche il più prolisso dei monologhi avrebbe potuto consegnarmi.