Tutto quello che avrei preteso oggi, come sempre, sarebbe stato vivere una giornata come tante, nell’arco della quale svolgere solo tranquillamente il mio lavoro.
Invece no.
Nella mia vita in modo tutt’altro che lecito ed ammissibile, ha fatto irruzione la violenza.
Quella che minaccia a voce grossa bardandosi con i “So dove abiti, me la pagherai!”
La colpa che dovrei espiare è non aver voluto commettere un reato violando qualsiasi legge a tutela della privacy e del buon senso per consegnare dei nominativi tra mani follemente affamate di vendetta.
La mia colpa primordiale è di aver scelto di collaborare con “Il Vrenzolario-The Original”, pagina idolatrata dalla maggior parte del popolo del web, ma anche presa di mira da chi tassativamente ne condanna la politica.
Così, l’incapacità di scindere “Napolitan” da “Il Vrenzolario – The Original” oppure il desiderio di consentire a sentimenti insani, come il rancore, l’odio e la vendetta, di convergere verso la strada più facile sono sfociati nell’opinabile diritto di rilevare il mio numero di telefono dalla voce “contatti” all’interno del giornale di cui sono direttrice ed editrice, per inscenare una “sceneggiata napoletana” che non fa né ridere né piangere, ma solo schifo.
È così che è iniziata la mia “settimana da incubo”.
Lo scorso lunedì sera, vengo contattata telefonicamente da una madre che rivendica giustizia per la figlia finita sul “Vrenzolario” sostenendo che da quel giorno la ragazza accusa gravi disturbi psico-fisici e che addirittura sarebbe giunta a meditare di togliersi la vita.
Una madre che, erroneamente ed arbitrariamente, identifica in me la proprietaria della pagina e che ipotizza che quella foto sia finita in quella sede quale risultante finale di un’azione premeditata da un gruppo di coetanei.
Una madre animata dalla convinzione che la figlia sia vittima di atti di bullismo, ma che altro non sa fare che muovermi continue pressioni affinché le consegni i nomi di coloro che hanno segnalato la foto della figlia alla pagina.
Umanamente la vicenda mi ha scossa al punto da intimare immediatamente agli admin del “Vrenzolario” di rimuovere la foto in questione ed allegando alla richiesta una copiosa lavata di capo, tant’è vero che da quel giorno i post pubblicati sulla pagina erano molto più contenuti e moderati.
Eppure per quella madre e per sua figlia ero disposta a fare molto di più.
Mi sono resa disponibile ad intervistarla, a raccontare la sua storia, consentendole, così, di riscattare la sua persona dopo quel triste episodio, ma soprattutto ho accolto i suoi sfoghi di 18enne ferita, nonostante gli incalzanti impegni di lavoro, ho provato a consolarla e consigliarla, perché sinceri erano il mio dispiacere e le mie premure.
A quella famiglia ho dato la mia umanità e loro ne hanno abusato.
Ed è questo che maggiormente mi ferisce e mi provoca un indicibile senso di rabbia. Tempo perso, parole sprecate, buone intenzioni date in pasto a ferine fauci che le hanno repentinamente sgretolate e che non hanno cessato di sbraitarmi contro, perché esclusivamente affamate di un unico pasto: “quei nomi”.
Davanti alla mia palese, ma sempre garbata, volontà di non collaborare, la madre ha ben pensato di alzare il tiro.
All’inizio le minacce erano velate: “Un amico poliziotto mi ha dato il tuo numero e mi ha detto di chiamarti per risolvere le cose senza denunce”... Poi “L’avvocato dice che la pagina è tua, è intestata a te, quindi se non vuoi essere denunciata, dammi quei nomi!”
Quella donna mentiva, sapendo di mentire e mi ha tenuto in ostaggio della sua follia per una settimana.
Il mio unico errore è stato quello di essere troppo accomodante, di offrirle la mia comprensione, ovvero di essere una persona per bene.
Ho spiegato che faccio un lavoro che porta via tempo ed energie e che gli ultimi giorni sono stati particolarmente densi di impegni, ma la sua replica è stata: “Non me ne frega, mi devi dare quei nomi… Altrimenti me li vengo a prendere a casa tua…”
Allora, ho pensato di spiegarle che mi stava istigando a compiere un reato, in quanto, avrei compiuto un atto illegale accedendo alla posta di altre persone per visionare dei messaggi privati, per poi divulgare il contenuto degli stessi a terzi.
Ed è in questo momento che le minacce si sono fatte esplicite e dirette: “So dove abiti, me la pagherai. Ha pianto tanto mia figlia, adesso piangi pure tu! Vammi pure a denunciare, non me ne frega, ma me la pagherai!”
A questo schifo, a questo sistema, a questo modo di risolvere i problemi, a questa mentalità squallida, nociva, deleteria, che rappresenta il vero tumore di questa città e del suo popolo, io, Luciana Esposito, mi oppongo e dico “BASTA”.
Ho sporto e sto sporgendo regolare, lecita e doverosa denuncia, attraverso tutti i mezzi di cui dispongo: prima avvalendomi del supporto delle forze dell’ordine che pubblicamente ringrazio per la pazienza e la collaborazione mostrata e adesso dando libero sfogo alla mia denuncia sociale, perché non ho e non voglio avere paura di vivere liberamente i miei diritti.
Non intendo variare né ridimensionare di una virgola la mia quotidianità, le mie abitudini, le mie regole di vita, saldamente ancorate su principi etici e morali avulsi dalla logica del “Non sai a chi appartengo” e dalla violenza come arma prioritaria alla quale conferire irruento sfogo per sottolineare la propria “forza”.
Cara signora, a lei dico che non mi fa paura, perché so di essere più forte di lei, perché, per crescere in quella stessa periferia alla quale appartiene anche lei, senza inciampare nel tipo di “sistema” che lei mi ha rovesciato addosso, bisogna avere più attributi di chi preferisce i muscoli al cervello.
Io, bionda e occhi azzurri, sono cresciuta in un esercito di “mediterranee”, ero “la mosca bianca”, perché amavo il calcio e i libri e venivo presa di mira per la mia “diversità” che trovava la sua massima espressione nella gracilità del mio fisico che esibiva un seno tutt’altro che prospero.
Eppure, mai, mia madre si è presa la briga di mediare tra me e loro.
Mia madre è stata fortemente capace di vedere in quella “diversità” tutto il mio essere “speciale”, mi ha sempre e solo esortata a credere nel mio talento e a seguitare ad essere me stessa, con dignità, fermezza ed orgoglio, perché lei era la prima a farlo. Ed è per questo che le dico che sono più forte di lei, perché ho risolto qualsiasi problema ed avversità facendo leva sulla forza delle mie idee e mai e poi mai e le ripeto ancora, mai, ho impugnato le armi della violenza per farmi valere, perché quella non è la via che persegue chi con fermezza crede in sé stesso, nella sua forza, nelle sue capacità.
Se davvero dovesse venire sotto casa mia, lei o chi per lei, a torcermi anche solo un capello, dimostrerà all’intero popolo del web qual è il peggiore insegnamento che una madre può impartire ad una figlia.
E quel giorno, allora si che sua figlia avrà un serio e valido motivo per cui vergognarsi.
Per il momento, inizi a farlo lei.