Mi chiamo Francesca Di Donato, ho 23 anni, sono originaria di Sant’Antimo e sabato notte avrei voluto tornare a casa, solo tornare a casa. Com’è sempre stato e come nessuno, adesso, è in grado di stabilire se, come e quando accadrà ancora.
Sono una studentessa, frequento la Facoltà di Giurisprudenza e questo, anche al cospetto di una tragedia come quella che sto vivendo, deve esortarmi a credere nella giustizia.
Per mantenermi gli studi, il sabato sera, lavoro in un pub ad Aversa, ma mai avrei immaginato che questo potesse costarmi la milza e un rene.
Dei balordi mi hanno scippato la borsa, ho opposto resistenza, perché la dignitosa cifra lì riposta, era il frutto dei miei sacrifici, della mia umiltà, così sono stata trascinata per una decina di metri e poi travolta dalla loro auto.
Mi hanno spappolato la milza e mi hanno lesionato un rene.
Ma sono ancora viva, quindi, “la mia tragedia fa notizia a metà.”
Ciò che mi esorta a scrivere queste parole è l’ossessiva e continua ricerca della risposta da incastrare in un unico e semplice quesito che mi balena nella mente dallo scorso sabato, da quella notte che mi ha segnato per sempre la vita: perché di me nessuno parla?
Forse, perché, chi nasce, cresce e vive nella terra della Camorra deve aspettarsi, prima o poi, di rimanere arenato in brutali episodi di criminalità, con quella medesima, costernata e lancinante rassegnazione che imprime nelle nostre coscienze la consapevolezza che, prima o poi, ci beccheremo un tumore, perché le radici irrimediabilmente avvelenate della nostra terra, non lasciano posto alla speranza.
Eppure ci riveliamo incapaci di concludere che l’origine di quel male che ha avvelenato le nostre terre, le nostre vite è la medesima che la deturpa avvalendosi di altre modalità e forme: la criminalità.
Forse perché subire è quella che, erroneamente, crediamo essere la strada più facile da perseguire.
In mio nome non ho visto radunare cortei; non ho visto svolgere manifestazioni per invocare giustizia per la sciagura nella quale la mia vita è rimasta imbrigliato; nessuno osa dire a voce alta, ferma e convinta: “Basta” alla criminalità e alla violenza che investono quotidianamente le nostre vite; le mie foto, quelle che raccontano la solarità e la voglia di vivere insita nei miei occhi e nel mio sorriso, non vengono divulgate attraverso i social, le tv e i giornali; i media non parlano di me, nessuno si chiede come sto, quando tornerò a casa e quali conseguenze irreversibili ha sortito nella mia vita da semplice e genuina aspirante donna quell’inumano e ferino scippo.
Se fosse servito a smuovere l’opinione pubblica verso un accorato ed intransigente atto di ribellione, al pari di quello che gli abitanti del Rione Traiano si sono cuciti addosso fin dagli attimi immediatamente successivi alla morte di Davide Bifolco contro le Forze dell’ordine, le ferite che mi deturpano corpo ed anima non sarebbero guarite, ma farebbero meno male.