Radicalmente opposta, rispetto a quella di tutte le altre periferie, è la realtà che vige all’interno del “triangolo della morte”: San Giovanni, Barra e Ponticelli.
Il soprannome affibbiato a quella periferia, la dice lunga sull’aria che si respira da quelle parti: pesante, elaborata, ponderosa, ridondante, uggiosa, colma di tensione, puntellata da una miriade di sfumature antitetiche.
Sparatorie, rapine, scippi, contrabbando, e non solo.
Giacché quella periferia, non è solo questo.
Chi crede che in quel territorio predominino la camorra e l’illegalità commette un errore madornale: quello è il regno della povertà, quella vera, quella che condanna una madre ad elemosinare un pacco di pasta piuttosto che un pezzo di pane pur di sfamare i propri figli; quella dei giovani ventenni già padri e mariti che si impiccano per non convivere con la vergogna di non riuscire a mantenere la propria famiglia, perché soffocati, prima ancora che da una corda o da un lenzuolo, dall’asfissiante e truculenta morsa della disoccupazione; quella dei ragazzini che crescono con un forte senso di attaccamento e responsabilità verso la famiglia, pertanto, in loro si sviluppa precocemente la convinzione che i libri non producono denaro e provvedere, ad ogni costo, al sostentamento dei cari, diventa la priorità da perseguire.
Padri in galera, da sempre, ragazzi che vivono cavalcando l’onda dei soldi facili, finché non ne rimangono travolti, madri a pieno ritmo, costrette a vestire gonna e pantaloni per crescere i figli secondo le loro leggi, perché per chi nasce in quelle famiglie, il destino, quasi sempre, è già segnato.
La povertà non legittima né giustifica la mentalità che vige in buona parte di quella periferia, ma è, senza dubbio, il motore che la genera.
Sovente accade che apprendiamo le loro gesta dalle pagine di cronaca o dalla distaccata voce di una giornalista ingioiellata e ben vestita che, dal retro della sua candida scrivania, narra quelle storie di strazianti ed ordinarie sciagure, non consapevole di quella che è la mera e ben più drammatica realtà dei fatti.
In verità, nelle loro stesse gesta, così come negli occhi di quella gente è intrisa una rabbia indomita, non verso i destinatari delle loro malefatte, ma verso il sistema, il destino o chiunque li abbia collocati sul gradino più basso e putrido del mondo.
Quella gente vorrebbe rivendicare il proprio diritto ad ambire ad una vita migliore, ma l’errore nel quale inciampano e che sistematicamente ripetono consiste nella scelta delle “armi” delle quali si avvalgono per conferire un tono più incisivo alla propria voce.
Da quelle parti è tutto molto suggestivo: la sfilata di cantanti neomelodici che si protrae dalle tarde ore del mattino fino al tramonto, introdotte dalle loro stesse voci che stridono frasi improbabili e melodie concitate dalle radio delle massaie, accompagnandole nella pratica delle faccende domestiche; i motorini che sfrecciano, come avvoltoi avidi ed affamati, alla ricerca della preda da agguantare; le ragazzine che accompagnano i loro bambini a scuola, farciti in un tenero grembiule celeste o rosa, seppure loro non abbiano avuto il tempo, il modo e la voglia di conseguire il diploma, giacché le circostanze maldestre gli hanno imposto di diventare repentinamente madri.
Quella fetta di umanità “difficile” si amalgama, però, tra chi ha saputo, perché probabilmente ha fortemente voluto, intraprendere una strada diversa: imbianchini, muratori, pizzaioli, manovali, lavoratori onesti che sanno accontentarsi di quei pochi, ma “puliti” soldi, guadagnati con il sudore della fronte, sporcandosi le mani di lavoro e non macchiandosele con quell’appiccicosa colpa che non si raspa con un risciacquo di acqua e sapone.