Una volta ho sentito definire Napoli come “una città a strati” in quanto, più o meno ordinatamente, “divisa”, materialmente ed ideologicamente, in porzioni che raccolgono stereotipi di umanità, simili ed affini, nell’anima, nel gergo linguistico e comportamentale, accomunati altresì dal credo sul quale radicano etica e morale.
Tuttavia, esiste, all’interno di quell’armonioso e caotico “sottomondo di mondo” che si chiama “Napoli”, un’esigua eppur infinita fetta che sovverte e stravolge la sopracitata teoria, proponendo, al contempo, uno dei tracciati più fedeli dell’anima di questa città.
“Il Pallonetto”, ovvero, quello che agli occhi del resto del mondo si presenta come la rinomata ed imponente cupola della Chiesa di San Pietro e Paolo sita in Piazza del Plebiscito, in realtà è uno scrigno di contraddizioni conficcato nelle visceri di Napoli.
Ogni volta che mi perdo nei meandri di quella fascinosa e contorta realtà, infatti, la sensazione che mi assale è che quel quartiere e lo spicchio di umanità in esso inglobato, siano disposti “a scale”.
Tuttavia si tratta di una “scala atipica”: affollata, priva di staccionate e poggiamani, che disegna percorsi complessi da comprendere e ai quali è ancor più difficoltoso attribuire un senso ed una direzione.
Salite, discese, ancora salite.
Gradini perfettamente tirati a lucido, seguiti da gradini putridi, maleodoranti, gradini integri, gradini squarciati da crepe e zolle, gradini sovraffollati, gradini ordinatamente occupati, gradini in cui vige il caos, gradini in cui regna la calibrata e signorile quiete.
Dietro, accanto e tra le braccia del “Pallonetto” le scarpe consumate e scaltre degli scugnizzi prendono a calci un pallone che irrompe nella distinta camminata di raffinate calzature, perfettamente tirate a lucido e perfino quel pallone ha imparato a dribblare i motorini che si destreggiano con analoga dimestichezza nella problematica realtà che ti salta addosso quando, da quelle parti, “la salita si fa più ripida“.
La tradizione narrata dai monumenti che riconduce alla “storia passata” e la sfrontata ed inconsapevole cattiveria palesata da alcuni di quegli stessi bambini che tristemente personifica talune pagine della “storia moderna”.
I “bambini del Pallonetto” hanno il volto e la coscienza degli adulti cuciti addosso e ne emulano dialettica, movenze, postura, mimica, gestualità, rappresentando, così, un piccolo serbatoio in cui vengono troppo presto inglobati tutti i limiti, gli eccessi ed il marcio di chi non conosce altra strada, all’infuori di quella che con più facilità sfocia nell’errore.
Basta arpionare qualche parola, figlia di un discorso qualunque, per capire che per le madri e i padri di quei bambini “l’errore” si chiama “Stato” “polizia” “istituzioni” e che le uniche leggi alle quali sono servili e alle quali giurano eterna fedeltà sono quelle della strada.
Quindi, legalità e illegalità, inesorabilmente, galleggiano lungo un labile e sottile confine, valicando un pò l’uno e un pò l’altro limite.
I famigerati caffè, quelli che fanno a gara ad esibire le foto dei personaggi illustri, del passato e del presente, quelli a ridosso dei quali regna una melodiosa e regale pace, poco distanti dal degrado e dall’anonimato che vige nei “bassi” di chi risiede sui gradini più “bassi” della “scala”; abiti di pregevole fattura che suggellano liberi professionisti, quotati, stimati, rispettati e rispettabili che si mescolano tra donne avvolte in succinti leggins piuttosto che in aggressivi abiti animalier.
Classe e stile, semplicità ed inconsapevolezza, succulente ed artificiose pietanze, “pane e peperoni”, “salsicce e friarielli”; un’elegante “Montblanc” adagiata nel taschino della giacca, pompose tracolle “Louis Vuitton” originalmente falsificate; le frasi sussurrate con un filo di voce, contraddistinte dalla voluttuosa “r moscia” che si perdono tra le urla e gli schiamazzi dall’accento marcato e verace; la distesa serenità di chi non teme il domani, la disperata preoccupazione di spera che “domani sarà un giorno migliore”.
E poi c’è il mare, quell’infinito bagliore di emozioni incastonato tra golfo e Vesuvio.
Quel mare, in realtà, racchiude, accoglie ed esibisce tutte quelle contraddizioni che solo in quel fedele specchio dell’anima di Napoli sanno trovare l’espressione più armoniosa e piena della loro essenza.
Ed è per questo che ogni napoletano, a prescindere dalla “scala” o dal “gradino” o dal “palazzo” in cui dimora, sa facilmente trovare e ritrovare la propria identità riflessa in quel mare, tutte le volte che lo scorge.
E, probabilmente, “imporre” di accarezzare “il Pallonetto” prima raggiungere il lungomare, è il modo più semplice ed ingegnoso architettato dal maestro che ha dipinto Napoli, per consentire ai suoi visitatori di carpire in pieno tutte le sfumature che albergano in quel mare.