È una sera qualunque, una calda sera d’agosto, una di quelle che inghiotte gli ultimi sospiri di un giorno qualunque, l’aria è appiccicosa e il timido fruscio del vento prova a zittire qualche cicala esagitata.
Una coppia qualunque, un ragazzo e una ragazza, giovani, innamorati, calano le tende della discrezione sulla loro intimità, appartandosi in auto nei pressi del Parco Virgiliano, a Napoli.
Le loro effusioni, però, vengono violentemente ricoperte dai fugaci abiti del terrore, allorquando, due ragazzi, di appena 17 e 18 anni, in sella ad uno scooter, affiancano la loro auto e forti della feroce minaccia sortita dalla pistola che impugnano, intimano ai due innamorati di consegnargli i cellulari.
Una fuga, un inseguimento, una manovra maldestra, i due giovani delinquenti impattano brutalmente contro una centralina della Telecom.
Il ragazzo che era alla guida dello scooter, non indossava il casco e muore sul colpo, il suo compagno di furto e di sciagura, invece, il casco lo indossava, eppur non è bastato per salvargli la vita.
A distanza di un anno dal tragico accaduto, la sentenza: 10 anni di pena da scontare in un carcere penitenziario per il ragazzo alla guida dell’auto per omicidio volontario con dolo eventuale.
Non è l’anteprima della prossima fiction televisiva ambientata a Napoli né un racconto ispirato da fervida e perversa fantasia.
È la triste realtà che ti passeggia accanto all’ombra del Vesuvio, capace di importi di recitare scene di truce e cruda barbarie che troppe volte finiscono con lo sporcare di sangue la pellicola della vita.
È il beffardo e cinico destino che sovverte i ruoli, stravolgendo i copioni, tramutando la vittima in aggressore e il carnefice in agnello sacrificale.
E poi c’è “il paradosso nel paradosso”, “l’inverosimile nell’inverosimile”, “l’intollerabile che dilaga nell’assurdo”: la madre di uno dei due ragazzi sostiene che non esiste perdono per chi ha ucciso “o’ figlio suo”.
E le visceri di Parthenope, nell’udire quello stonato canto, inquinato dalla becera ignoranza, s’ingozzano di veleno e si scoprono incapaci di nuotare in quel copioso mare di disperata insofferenza che le sovrasta.
Le madri.
Croce e delizia della terra, di questa terra, di tutte le terre, ma, di questa terra, forse, un po’ di più.
Madri che, talvolta, sviluppano forzuti ed instancabili muscoli, pur di vincere quell’estenuante braccio di ferro contro l’illegalità, pur di scippare i loro figli dalle asfissianti ed infime grinfie della criminalità.
Madri che, altre volte, fortemente desiderano che i figli crescano “miez’ a via”, perché addestrarli e non educarli è l’unica forma d’istruzione conosciuta, concepita e concepibile, in taluni contesti.
Forgiarli ad immagine e somiglianza dei “boss” e dei “malament’” è sinonimo di forza, virilità, rispettabilità.
“Criminale” secondo il codice d’onore di quella gente è la più alta carica perseguibile, più di “dottore”, “ingegnere”, “avvocato”, perfino più di “santo”.
Madri incapaci di battere le mani contro il petto per assumersi le proprie responsabilità ed impropriamente e paradossalmente abili a puntare il dito contro chi è stato oltraggiato per ben due volte: prima dalla loro stessa incapacità di esercitare in maniera sana e socialmente costruttiva il ruolo di genitrice e poi da chi avrebbe quantomeno dovuto e potuto “limitare i danni” e ribadire che questo, nonostante tutto, può essere ancora un mondo giusto, in cui, paga chi realmente sbaglia.
Quello era un ragazzo che fuggiva per mettersi in salvo.
Fuggiva animato dalla paura.
La paura che ti scorre nelle vene quando percepisci la tua vita saldamente afferrata da mani sconosciute e, in quanto tali, capaci di compiere qualsiasi, imprevedibile, azione.
Quel ragazzo non aveva una pistola seduta accanto a lui, ma una ragazza che ha desiderato, senza dubbio, difendere.
I due giovani deceduti in quei labili scampoli di follia, di attimi come quelli ne avevano collezionati un bel po’: rapina, guida senza patente, reati contro il patrimonio. Una lista presumibilmente destinata a lievitare.
Eppur questo non li rende, di certo, meritevoli della prematura e brusca fine alla quale sono andati incontro.
Avrebbero solo meritato di essere “educati” o “rieducati”.
Le madri sono, da sempre, il motore del mondo e dispongono di una forza tale da poter sovvertire le stagioni, spostare le montagne, ideologiche e di sassi, cambiare il mondo stesso.
Se solo fossero in grado di esercitare propriamente quella forza…