Se respirassi Napoli con i tuoi polmoni e ritrovassi il coraggio di guardarla senza filtri, dritto negli occhi, per giungere a toccare con mano le cicatrici e le ferite tuttora sanguinanti che si porta cucite addosso, saresti orgoglioso dello striscione apparso nel Rione Sanità, perché rappresenta un monito forte alla camorra e ancora di più a chi la intreccia a suggestioni letterarie/cinematografiche per lanciare sul mercato prodotti “proliferi” utili a tenere viva la macchina da soldi innescata da Gomorra, tanti anni fa…
“La camorra e rinnegati non hanno nazionalità e Napoli ha bisogno d’amore, non di fango. Napoli in azione”: questo è quanto riportato su quel mantello bianco, pregno d’indignazione ed orgoglio, oltre che di vernice. Napoli rivendica verità, è stanca delle tue “favole”.
Scontata e assai opinabile la tua replica: “Questo striscione campeggia a Napoli abbarbicato sul ponte della Sanità. Questo striscione lo ha messo lì chi odia Napoli. Perché fango non è raccontare, fango è uccidere, spaventare, terrorizzare, togliere speranza e azzerare ogni futuro possibile.”
Se tu vivessi a Napoli, ti sarebbe giunta notizia che, proprio nel cuore del Rione Sanità, in una delle fette di Napoli più sopraffatte dalla camorra, all’indomani della morte dell’ennesima vittima innocente della criminalità, centinaia di persone sono scese in strada per sbarrare il passo alla camorra. E, probabilmente, quello che esaspera ed indispettisce il popolo è il fatto che tra gli scritti e nelle gesta cinematografiche che portano la tua firma, “stranamente” non c’è spazio per la civiltà e la legalità che inizia a rivendicare la sua presenza, soprattutto tra le crepe dei contesti più devastati dalla camorra. Questo ritrovato e partecipato senso d’indignazione rischia di offuscare l’attendibilità di quel prodotto che assicura il massimo risultato con il minimo sforzo: “camorra, Scampia e malammore”. Del resto, perché discostarsi da un principio mediaticamente vincente, parafrasando una realtà che rischia di rompere il giocattolo?
E questo, agli esseri pensanti che hanno ancora voglia di indignarsi, proprio non va giù.
Due aggressioni fisiche, l’ultima sfociata persino in un tentativo di sequestro di persona, all’incirca 15 denunce sporte dall’inizio del 2016, minacce di morte da parte della madre del boss dei Barbudos, plurimi raid vandalici alla mia auto. Le intimidazioni, le minacce e gli avvertimenti, sono all’ordine del giorno: questi i fatti che sintetizzano il mio lavoro di giornalista, direttrice di un giornale online qualunque, una scelta voluta per non sottostare alle disposizioni di nessun padrone. Con tutti i contro che questo comporta. Non diventerò mai ricca e non è questa la motivazione che anima il mio operato, diversamente avrei mollato dopo il primo “strascino”.
Il tutto viene ulteriormente aggravato da un dettaglio che fa la differenza: vivo nel posto in cui lavoro e di cui racconto le malefatte, Ponticelli, quel quartiere che hai intravisto attraverso talune scene di Gomorra, quello in cui, invece, io sono nata e cresciuta e dove vivo e lavoro, muovendomi tra la violenza, l’odio, l’omertà di chi, mentre venivo pestata, non ha mosso un dito per difendermi. Eppure, ho scelto di restare e di non fare nemmeno mezzo passo indietro.
Anzi, ho imparato a capire che misurarsi costantemente con la paura e con i limiti imposti dalla consapevolezza di quello che fai è il metro valutativo più attendibile per non perdere mai la lucidità né l’impatto con la realtà.
Non me ne volere, ma credo che tu non abbia la minima percezione di cosa voglia dire vivere costantemente sotto minaccia: gli sguardi, le citofonate nel cuore della notte per buttarti giù dal letto solo per recapitarti l’ennesimo “consiglio”, le limitazioni dettate dalla consapevolezza che ti muovi in un campo minato, il lucido cinismo che ti porta a non fidarti di nessuno. Eppure, non vivo sotto scorta, le spalle ho imparato a guardarmele da sola, ma non credo che la mia vita valga meno della tua, meno che mai lo penso del mio lavoro.
La ricerca della verità e soprattutto la “vera” lotta Anticamorra, richiedono questo genere d’impegno e di sacrificio e chi sceglie d sposare questa causa, deve fare inevitabilmente i conti con tutto ciò che questa scelta tristemente comporta. Di conseguenza, le difficoltà con le quali mi confronto sono innumerevoli, quindi, nonostante sia presente sul posto, faccio non poca fatica a reperire notizie certe. Mi ha sempre affascinato ed incuriosito il fatto che, invece, tu non subisci questo genere di difficoltà, nonostante ti trovi a raccontare Napoli dall’altro capo del mondo. Questo “dettaglio” non sfugge allo spettatore/lettore attento che non può non interrogarsi in merito all’attendibilità dei fatti che racconti.
Romanzare la camorra sta mietendo più danni dell’affiliazione stessa, ma per rendertene conto dovresti vivere Napoli da Napoli.
I giovani camorristi che prima di andare a fare “le stese” si riuniscono in cerchio e urlano “le frasi di Gomorra” per motivarsi, l’emulazione fisica e comportamentale dei personaggi della serie, non solo da parte dei camorristi, la riproduzione fedele della casa di Don Pietro Savastano voluta da un boss, i ragazzini che ripetono fino allo sfinimento “le frasi tormentone” della serie, mentre giocano a pallone o ai videogiochi: per questo genere di “mostri”, Napoli deve “ringraziare” te.
E sarebbe opportuno ed anche estremamente interessante che fossi tu ad analizzare “l’effetto di Gomorra sulla camorra”.
Sei bravo a forgiare la realtà a immagine e somiglianza dei tuoi interessi, ma in questo caso, non ci provare: gettare fango non è “raccontare”, ma raccontare una realtà falsata per andare incontro a delle esigenze che nulla hanno da spartire con la ricerca e la denuncia della verità.
Nessun napoletano avulso dal sistema camorristico ha mai contestato il lavoro e le inchieste di noi giornalisti presenti sul campo, anzi. Quello che, fin qui, mi ha dato la forza necessaria per non mollare è proprio l’incoraggiamento dei tantissimi napoletani desiderosi di liberarsi dalle angherie della camorra.
Non giriamoci troppo intorno: la tua lotta Anticamorra, nasce e si sviluppa per alimentare un business ben preciso e questo i napoletani lo hanno capito ed è più che legittimo che ti chiedano di cambiare registro e prendere una posizione netta: o romanziere o “detentore di verità assolute e inconfutabili”, non posso chiamarti giornalista perché non lo sei ed è bene ricordarlo. Nel caso in cui tu scelga di servire la verità, liberati da forzate ipocrisie, rimboccati le maniche e scendi in trincea insieme a noi, perché lo ribadisco: la tua vita non vale di più della mia e di quella di migliaia di giornalisti che ogni giorno rischiano la vita in nome di un ideale e che per questo non si sentono degli eroi né si aspettano che il mondo si fermi per tributargli una standing ovation.
Se dovesse accadermi qualcosa, tu sei una di quelle persone dalle quali desidero ricevere solo indifferenza: vedermi appioppare uno dei tuoi sermoni, vorrebbe dire gettare fango prima sul mio cadavere e poi sulla credibilità del mio lavoro, più silenzioso del tuo, ma, anche assai più sincero e disinteressato.